Ottantadue libretti in trentanove anni. A Natale, a Pasqua e, qualche anno, anche alla Pentecoste. L’ultimo arriverà a Natale 1999, quando Emilio non c’era più. Fino alla Pasqua 1972 “Lettera ai giovani del Virgilio”; dopo, lasciata la scuola, “Lettera agli amici”. Una lettera sulla Parola di Dio, e una scelta originale di testi vari, dalla Sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa, da mistici cristiani e di altre fedi, da credenti e non credenti, teologi, narratori, saggisti, filosofi, poeti, autori di tutti i tempi, molti i contemporanei. Una sequenza di brani, senza alcun ordine cronologico e sempre sorprendente, che si leggeva come un’estensione della lettera. Ha scritto un suo alunno: «Per me era Emilio che si esprimeva con le parole di Agostino, di Dante, di un poeta del ‘900, di un testimone della storia, di un ebreo, un cristiano o un musulmano, di Gandhi, di un non credente». Un libretto molto curato nella grafica e stampato presso l’amico editore Daniele Borgia, normalmente di sedici pagine, con un’immagine in copertina, spesso un particolare di una scultura di abbazie e cattedrali francesi. Prima cento, poi trecento, mille, millecinquecento copie. Imbustate da Emilio una per una, e gli indirizzi scritti a mano.
Puoi sfogliare i libretti di Natale 1962, Natale 1969, Pasqua 1987, Pentescoste 1992, Natale 1999.
Accennerà ai libretti, e sarà l’unica volta, nella Lettera per la Pasqua 1993: «Un filo sottile tenace”, così Anna, ex alunna del Virgilio, definisce le mie lettere agli amici; e aggiunge che queste lettere l’hanno sempre aiutata “a ricucire gli strappi del tempo”. Quando, più di trent’anni fa, incominciai a scriverle, queste lettere erano destinate unicamente ai giovani del “Virgilio” di Roma, poi di anno in anno la cerchia degli amici si è estesa a macchia d’olio; e questo filo sottile, senza suo merito, ha finito per diventare come l’ordito di una trama sul telaio».
Sono rarissimi i riferimenti agli alunni e alla vita scolastica. Fa eccezione la lettera di Pasqua 1977. «Dieci anni fa, una sera d’aprile… mi trovavo con un centinaio di giovani del “Virgilio” di Roma a pregare nella chiesetta di san Damiano in Assisi, davanti al Crocifisso che parlò a san Francesco affidandogli la missione che sappiamo. Avevamo finito e tutti erano usciti, ma uno mi aspettava per dirmi che aveva guardato il Crocifisso e aveva dovuto abbassare gli occhi. Voleva capire che cosa gli stava succedendo, poiché era un ateo convinto. Gli dissi che non doveva temere quello sguardo che si era posato su di lui, e gli citai il caso d’un altro giovane che si era accostato a Gesù per sapere che cosa doveva fare; Gesù “lo guardò e lo amò”, dice Marco. È poco dire che “lo guardò con grande simpatia”, come qualcuno ha tradotto. Lo sguardo di Gesù esprime tutto l’amore che Dio ha per ciascuno di noi, soprattutto nel momento in cui egli pende dalla croce per noi».
Alla lettera fa seguito un’antologia di testi sull’albero della Croce, da Paolo a Cirillo di Gerusalemme, da Paul Claudel a Mario Pomilio. C’è sempre uno stretto rapporto tra quello che Emilio scrive e i brani che propone.
Amava il testo filologico, la lettura umanistica, e non gli sfuggivano le novità culturali. A Natale 1974 cita il romanzo di Elsa Morante, La storia, che era uscito qualche mese prima. A Pasqua 1992 Erri De Luca. Tra gli scrittori troviamo Camus, Bernanos, Eliot, Ungaretti, Montale, Brecht, Pasternak, Solzhenitsin. Origene e Agostino, Seneca e Dante, Caterina da Siena, Kirkegaard e Dostojevsky sono tra i più citati. Più volte compaiono Enzo Bianchi e Carlo Maria Martini. Emilio propone anche Gianni Vattimo e don Ciotti, Martin Buber e il poeta musulmano Rumi, Simone Weil, Pietro Rossano, Giorgio La Pira, David Maria Turoldo con i suoi versi, i vescovi brasiliani e padre Betto, Anna Frank e il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, i testimoni della Shoah Elie Wiesel e Primo Levi.
Per la Lettera di Pasqua 1966 sceglie l’Adamo addormentato scolpito nel primo pilastro del Duomo di Orvieto e lo illustra con queste parole di S. Agostino: «Adamo dorme perché sia formata Eva; Cristo muore perché sia formata la Chiesa… Come non vedere nel sonno di Adamo adombrata la realtà futura, dal momento che l’Apostolo afferma che Adamo “era figura di Colui che doveva venire”?».
A Pasqua 1968 offre un brano da La forza di amare di Martin Luther King (ucciso a Memphis il 4 aprile di quell’anno): «Cristo è il Verbo fatto carne. Egli è il linguaggio dell’eternità tradotto nelle parole del tempo». Di don Milani, morto l’anno prima, figura di riferimento per gli studenti della contestazione esplosa quell’anno, riporta un celebre passo: «Bisogna avere il coraggio di dire ai giovani che l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio».
Rimarrà profondamente legato alla figura di don Milani e alla sua lezione sulla scuola. Scriverà nel 1970, recensendo la raccolta di lettere del prete di Barbiana: «Una scuola come l’ha concepita don Milani non può essere fatta che per amore, un amore che necessariamente genera alla vita, un amore che fa crescere, che fa diventare adulti».
“La speranza della messe è già nel seme”, così illustra Emilio la scultura di Chartres che ha messo in copertina a Natale 1968. E la fatica umana, raffigurata nel bassorilievo, «non è vana perché la nostra speranza è fondata… Comune è la sofferenza, comune sia la gioia che nasce dalla speranza che non delude». È esplosa la contestazione quell’anno, Emilio non la ignora nella sua lettera: «È da ciascuno di noi che deve nascere l’uomo nuovo che il mondo attende. Questa nascita non può avvenire senza sofferenza: è il tributo che bisogna pagare alla vita. Ma la sofferenza deve essere illuminata dalla speranza». Rilke, Tertulliano, Pascal, Erasmo sono tra gli autori dei testi che propone nel florilegio.
Per il Natale del ’71 associa agli angeli cantori della Pala veronese del Mantegna una frase di Gandhi. Risuona nella Lettera ai giovani lo spirito del profeta della non violenza insieme con l’insegnamento dell’amore cristiano: «Non si può sperare di vedere Dio se non si tiene conto dell’uomo, e non si può entrare in comunione con Dio se non si accetta seriamente la solidarietà umana; poiché la salvezza dell’uomo, la sua pace, la sua gioia sono sì anzitutto il frutto dell’amore con cui Dio ama gli uomini, ma altresì, non meno, il frutto dello sforzo degli uomini che dimostrano di credere all’Amore mettendo la loro vita a servizio dei fratelli… Certo, non possiamo rinunziare alla giustizia e lasciarci vincere dal male: ma solo l’amore, se è sincero e forte, compie giustizia andando oltre; solo “l’amore crea”, ha detto P. Kolbe, che non ha esitato a prendere il posto d’un condannato a morte. Rompere il cerchio della violenza ponendo autentici gesti d’amore e di pace. Tale è stato il gesto di Dio nella nostra storia. Questa è la novità che il Natale annuncia, la speranza che offre. Questo è il senso del messaggio che ci giunge da un campo di sterminio».
Nel 1972 manda non un libretto ma solo una lettera a Pentecoste: sono passati trent’anni dall’ordinazione ed Emilio vuole condividere con gli amici la ricorrenza. «Tento di fare un piccolo bilancio, perché se è vero che i cristiani in generale “sono tenuti a rendere conto a chiunque della speranza che è in loro”, tanto più un prete. Più volte ho avuto occasione di dire che se rinascessi mi rifarei prete; lo ridico adesso, tanto sono contento di questa strada, o meglio di questa grazia». Ricorda il Concilio e “l’incessante riforma” che esige la fedeltà a Cristo. Vede purtroppo «in atto la liturgia dell’adorazione del vitello d’oro, avallata, per tutti gli idoli fabbricati dall’uomo, dalla menzogna… è necessario che si levi vigorosa la voce profetica contro ogni mistificazione alienante… Non si può credere in Dio, nel Dio vivo, se non c’è salvezza per l’uomo che è l’immagine di Dio, anzi, secondo la Bibbia, la gloria di Dio. È dunque dalla parte dell’uomo che deve trovarsi la chiesa; e non per salvare se stessa». A questo punto inserisce un racconto: «Non potrò mai dimenticare la lezione di un’umile donna che incontrai una sera sulla soglia d’una chiesa romana. Voleva sapere a che ora ci fosse la messa. Io non lo sapevo. Lei entrò ugualmente, dicendo: “Prenderò quello che c’è; il Signore c’è sempre”».
Nella Lettera di Pasqua del ’75 Emilio riflette sulla speranza e lo fa a partire dal “Cristo risorto come primizia di coloro che si addormentano nella morte”, tema centrale della sua fede e della sua ricerca. «Senza questa speranza, tutte le mie speranze storiche sono senza radice e senza linfa duratura. Perciò non riesco a condividere la sicurezza d’un giovane che mi scrive: “La mia speranza sono gli uomini”; ormai so a quante delusioni sia esposta tale speranza, che pure non dev’essere mortificata ma ben nutrita… Oh se i nostri occhi si aprissero come si aprirono gli occhi dei discepoli di Emmaus… Abbiamo bisogno di una speranza che non delude, e questa speranza la troviamo soltanto nella Pasqua del Signore».
È un tema quello della speranza su cui Emilio è ritornato più volte. Nel ’71 aveva collaborato con una riflessione di taglio biblico a un libro scritto a più mani, con Mario Colafranceschi, Giulio Madurini, Pietro Scoppola, Pietro Rossano, e pubblicato dall’editrice Ave: Speranza e storia Speranza cristiana e speranze del nostro tempo.
Il libretto di Pasqua del 1982 porta in copertina un Cristo di Andrej Rublëv, forse il pittore che Emilio ha più amato. Cristo icona del Dio invisibile, i santi icone viventi di Cristo: «Nei santi il Cristo si rende presente in questo mondo ma non solo nei santi. Il Cristo è presente in ogni uomo, compreso l’ultimo. Ciò spiega quanto sia difficile riconoscerlo. E tuttavia agli ultimi è legata la speranza del futuro». E qui cita san Francesco, «icona di Cristo. Da Assisi, novello Oriente, si levò la luce che ancora risplende nelle tenebre e guida i nostri passi… Francesco, icona di Cristo, come ogni icona rende presente il prototipo, ci mette in comunione con il Vivente». Tra i testi che propone in quel libretto le ultime tre lettere e il testamento di Francesco.
Ci sono forze oscure, disgregatrici, che oggi più che mai congiurano contro l’uomo», scrive nella lettera di Pasqua 1983, ma – aggiunge – non dobbiamo sentirci abbandonati al potere delle tenebre. «Assolutamente non posso chiudermi in me stesso, perché l’amore di Cristo, che urge dentro di me, non mi dà tregua; irresistibilmente mi spinge fuori di me e non mi darà pace finché ci saranno posti vuoti a quella tavola cui sono stato invitato insieme con i miei fratelli, nessuno escluso. “La nostra carità non serra porte”. Ciò che Piccarda dice del paradiso, vale anche per questa terra” »..
La lettera di Pasqua 1987 è centrata sul «mistero d’iniquità dilagante nel mondo» a cui non c’è, scrive Emilio, altra risposta se non lo scandalo della croce di Cristo che «diventa, per chi crede, la manifestazione della gloria di Dio crocifissa». Ma riusciamo a ravvisare Cristo crocifisso «in ogni uomo spogliato della propria dignità e che paga per l’ingiustizia degli altri?». Come ci poniamo di fronte al silenzio di Dio «quando l’innocente è calpestato?», si chiede Emilio. E risponde nell’antologia con due brani dalla letteratura della Shoah.
Il primo è in una pagina de La notte di Elie Wiesel in cui si racconta l’impiccagione di un bambino nel lager. «Dietro di me udii il solito uomo domandare: – Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca».
Il secondo testo è tratto da I sommersi e i salvati di Primo Levi: «In lager si entrava nudi… Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme, non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere schiacciato in ogni momento».
A Natale 1988 torna sugli anni Sessanta, quando «non solo la Chiesa, ma l’intera umanità, sembrava decisa a intraprendere vie nuove…E cominciò a soffiare un forte vento, quello della contestazione che investì tutto e tutti…Ci fu chi pensò che bisognava cambiare tutto e subito, e senza esitare si lanciò nella lotta coinvolgendo le nuove generazioni. Si arrivò anche alla lotta armata e agli anni di piombo». È un richiamo esplicito al 68 e al 77, «troppo presto per capire fino in fondo e per fare un serio bilancio», avverte Emilio, ma quello che è chiaro per lui e che ci vuol far ricordare è l’illusione di «poter cambiare le cose senza cominciare da se stessi» e senza donare se stessi. «Dio ha contestato il mondo con il più grande atto d’amore: ha donato se stesso. La redenzione del mondo è strettamente legata a questo dono personale… E che cosa può fare l’uomo per questo mondo, se non è disposto a donare se stesso? ».
«Quanta durezza di cuore han dimostrato tanti uomini di oggi, specialmente quelli che in nome di alti ideali si erano impegnati a servire gli altri e invece si sono prostituiti agli idoli del potere e del denaro, inquinando i rapporti sociali e avvelenando anche l’aria! Quanti ideali traditi e quanto speranze deluse!». L’Italia degli scandali di Tangentopoli entra nella lettera per il Natale del 1993. Ma ecco riapparire nella notte cupa la stella di Betlemme, «la Parola che si fa carne nel tempo… e diventa l’umile goccia che scava, penetra e scioglie la durezza del nostro cuore di pietra». Emilio cita Ezechiele che annuncia la purificazione da tutti gli idoli e la promessa di un cuore nuovo. «Nulla di autenticamente nuovo sorgerà senza l’uomo nuovo con un cuore nuovo», ammonisce Emilio, ma la conversione del cuore può avvenire solo accogliendo «il Bambino che fa ringiovanire il mondo» e mettendosi alla sua scuola.
Per Pasqua 1994 propone in copertina un particolare di una scultura del XII sec. e lo illustra: “Il mulino mistico è il più bel capitello simbolico della cattedrale di Vezelay, tappa fondamentale sulla Via Lattea che conduceva a Compostela”. Tra i testi che offre nel libretto l’Inno pasquale della Comunità di Bose e brani di Carlo Maria Martini, don Giuseppe de Luca, Enzo Bianchi, Eugenio Montale.
Torna alla conversione del cuore nell’ultima lettera, Natale 1999. Per Emilio è la condizione «per partecipare alla grazia e alla gioia del Giubileo» che sta per aprirsi. E che vede come un’occasione «per ritornare alle origini, per convertirsi dalla mentalità umana del successo rapido ed effimero all’essenziale nudità del messaggio evangelico». Di fronte ai cantieri per il Giubileo, che rimandano piuttosto l’immagine della chiesa trionfante e della fede “ai trionfi avvezza”, ricorda, con Paolo, che «la forza di Dio si manifesta pienamente nella nostra debolezza». Con commozione Emilio guarda a papa Woityla, «che in un primo tempo andò per le vie del mondo impugnando la croce come una spada, appoggiarsi ad essa senza nascondere la sua infermità e umana debolezza». Chiude la lettera con una frase di Agostino che ha spesso citato: «Attraverso strutture provvisorie: per machinas transituras, il divino architetto costruisce domum mansuram, la casa in cui abiteremo con lui per sempre».