Se per voi sono pastore, con voi sono cristiano, ciò che sono per voi mi fa tremare, ciò che sono con voi mi sostiene.
Nell’autunno 1972 Emilio non è più a Roma, non è più nel suo amato “Virgilio”, è a Levanto, lì chiamato a reggere la parrocchia. In una lettera ai colleghi del liceo, datata 8 settembre 1972, in cui comunica che sta per lasciare Roma, confessa: «Al Virgilio ho cercato di dare quanto avevo di meglio, e in compenso ho ricevuto quanto di meglio porto via con me e che fa parte della mia vita… Ma le radici profonde che mi tengono avvinto al suolo romano e che mi rendono assai difficile il distacco, mi fanno sentire fortissimo il desiderio di tornare con una certa frequenza». Tra viaggi, lettere a Pasqua e Natale, messe domenicali, conferenze e passeggiate romane si era formata una comunità di alunni ed ex alunni che era nata e si alimentava nella scuola ma ormai si esprimeva anche al di fuori delle aule. Perciò l’uscita dal Virgilio, l’abbandono di Roma, per Emilio è doloroso.
Per quattro anni, dal 1972 fino all’estate 1976, Emilio è parroco a Levanto, nella chiesa di S. Andrea, che così descrive nella lettera agli amici: «…è un bel gotico genovese, fu ultimata nel 1226, l’anno stesso della morte di san Francesco. Non è quindi improbabile che sia stata iniziata quando Francesco, obbedendo alla voce divina, ricostruiva ad Assisi la chiesetta di san Damiano», e qui Emilio va a toccare un tasto che gli è caro: riedificare la Chiesa sulla base del Vangelo. «Il Vangelo “sine glossa”, cioè senza incrostazioni né sofisticazioni, fu la bruciante passione di Francesco, e questo fu il servizio che egli rese alla Chiesa del suo tempo… Lasciandosi guidare dal Vangelo, Francesco si trovò dalla parte dei più poveri, dei più deboli, di coloro che non contavano nulla e mai avevano potuto far sentire la loro voce».
Nel giugno 1975 illustra la storia e l’arte del suo “bel Sant’Andrea” in un opuscolo che «riassume – scrive Emilio – la fatica e l’amore per la chiesa di pietra». Ma a lui sta a cuore la chiesa viva, la chiesa degli uomini.
Emilio vuole che la celebrazione del battesimo sia comunitaria e così avviene, domenica 3 dicembre del ’72, alla Messa parrocchiale. Ma quella decisione «ha incontrato qualche resistenza – annota Emilio – dovuta alla consuetudine di amministrare il sacramento del battesimo individualmente in qualunque giorno e a qualunque ora». Emilio è andato nelle singole famiglie per preparare i genitori: «È necessario che si rendano conto del dono di Dio e lo accolgano con fede… convinto che la fede nasce dalla Parola di Cristo e soltanto con un contatto personale e assiduo con questa Parola può essere alimentata». Ha organizzato degli incontri settimanali per «educare al gusto della Bibbia e della Liturgia come fonti della comunità parrocchiale». La risposta lo delude: poche e distratte presenze. «Purtroppo ci si illude di poter essere apostoli di Cristo senza prima diventare suoi discepoli».
Muore il padre. Sul diario, alla data del 3 giugno 1976, Emilio scrive: «Un sentimento è dominante in me in questo momento, un sentimento di riconoscenza a Dio Padre per avermi manifestato la sua paternità attraverso un padre così umile e grande». E qui Emilio si dà a una confessione: «Se talora mi sono vergognato e sentito umiliato per la povertà di mio padre, ora più che mai sono fiero del più autentico segno di nobiltà e di speranza». Nella lettera di auguri per la sua ordinazione, don Primo Mazzolari gli aveva scritto: “Riguardo alla nostra inguaribile povertà non accorartene troppo”. Lo consola che al padre sia stata risparmiata la paura della morte e le grandi sofferenze, annota Emilio: «Così si augurava che fosse il suo passaggio e così anch’io mi auguro che sia il mio». Non sarà così. «Le radici dell’anima sono immerse nella tristezza», annota sul diario il 6 giugno. La sua vita è stata segnata dall’amore: «È stato molto amato e ha amato molto sino alla fine. E così prego sia di me”. Emilio rende grazie a Dio per avergli dato «questo padre, il quale mi ha educato nel timore di Dio, principio della sapienza, e nel rispetto di tutti gli uomini, con particolare attenzione ai più piccoli… Era diventato cieco. Per lunghi anni camminò al buio cercando la luce… Camminava “come se vedesse l’invisibile”». Nella rubrica che per anni ha tenuto sulla rivista della Compagnia di San Paolo, Il Piccolo, scriverà del padre, e lo farà “superando quel senso di pudore che tende ad avvolgere nel silenzio ciò che non si può esprimere a voce alta”.
Emilio di fronte alla festa del mare, in onore di San Giacomo, patrono dei marinai: cortei in costume, tornei medievali, sbandieratori, luminarie. E la processione dei Cristi, Crocifissi lignei portati a braccia dalle confraternite convenute da tutta la Liguria. Tutto questo a Emilio non piace. «Conserverò a lungo l’immagine della folla di ieri sera, troppo distratta dall’essenziale e frustrata nella sua autentica aspirazione religiosa per poterla esprimere. Mi è sembrato un modo per illuderci tutti che siamo cristiani per il numero, il peso e la fantasmagoria dei Cristi portati».
L’amore suscita lo spirito di servizio, scrive Emilio nel suo diario a settembre 1976, ricordando Giovanni XXIII e il Concilio. Bisogna essere preti come don Primo Mazzolari: verità nella libertà, libertà nella povertà. Emilio sente il peso dell’isolamento, dello spreco dei talenti. La solitudine è la strada della vocazione, da percorrere con la presenza del Signore che l’ha suscitata.
Emilio è arrivato alla conclusione del suo servizio pastorale a Levanto. E al momento del distacco nota che «si è sciolto il ghiaccio e dalla pietra è scaturita l’acqua. La fede dei Levantesi è stata messa in crisi, una crisi salutare, una crisi di crescenza. È stata messa in crisi non da me ma dalla parola di Cristo».
Emilio è commosso e ringrazia il Signore: «Parto con un sentimento più vivo della mia povertà e insieme con un’accresciuta fiducia nella parola del Signore… Ora mi conosco meglio e ti conosco meglio».La lettera con cui, l’8 settembre 1976, si congeda dai suoi fedeli è di radicale franchezza: «Venni in mezzo a voi senza sapere nulla di voi ma col fermo proposito di dedicarmi totalmente a voi… Mi sono giunti lamenti come questo: “Il parroco non ci capisce”, e anche come questo: “Ci fa perdere la fede”. Mi dispiace di non essere riuscito a farmi capire; ma non mi dispiace di aver fatto perdere certa fede, che al più è buona fede, legata ad abitudini ed espressioni puramente esteriori e convenzionali, priva ormai della linfa che l’ha suscitata… Ho molto da rimproverarmi e molto da farmi perdonare; e chiedo perdono a tutti quelli che ho urtato con modi aspri, che non ho ascoltato con pazienza, che non ho accettato con larghezza di cuore. Non vi nascondo nulla della mia debolezza e dei miei limiti, ma spero che nessuno dubiti del mio amore: un amore difficile e sofferente, tuttavia sincero e leale. A qualcuno sarò apparso intransigente e duro; ma troppo spesso ho dovuto accettare l’impopolarità per amore della verità».
Nello stesso giorno, l’8 settembre del ’76, Emilio presenta al vescovo un Resoconto, una sorta di bilancio e insieme le sue convinzioni sul lavoro parrocchiale. Preparare una nuova stagione, educare a una fede adulta attraverso l’ascolto della parola di Dio: questa è la missione in una «cristianità tradizionale, ben radicata nel passato, poco aperta al futuro, difficilmente individuabile nel presente». Un giudizio severo: «Non intendo contrapporre fede e religione, ma a Levanto ho constatato che certe manifestazioni religiose se non sono pura esteriorità mancano della linfa di una fede profonda. Io non ho voluto coprire il vuoto con delle illusioni, ma ho cercato in tutti i modi di convincere i levantesi che cristiani non si nasce ma cristiani si diventa per una scelta consapevole, per una risposta personale e responsabile alla parola di Dio oggi. Perciò la prima cosa che occorre è ascoltare attentamente questa parola, confrontare con essa la propria vita, per diventare davvero discepoli di Cristo. E diventare discepoli di Cristo insieme agli altri discepoli, significa diventare popolo di Dio, chiesa».